Patrick George Zaki il prossimo 16 giugno compirà 30 anni e, con ogni probabilità, lo farà tra le stesse quattro mura in cui è rinchiuso dal 7 febbraio 2020.
Venerdì sulle pagine del Corriere della Sera trovava spazio un articolo di Carlo Verdelli molto schietto e sentito. Verdelli faceva notare che, ad un mese e mezzo del mandato plebiscitario del parlamento in favore del riconoscimento della cittadinanza italiana a Patrick Zaki, tutto è immobile. «È un’iniziativa parlamentare. Il governo non è coinvolto, al momento», affermava il premier Draghi nei giorni successivi alla votazione. Ma prima o poi – molto meglio prima che poi – il governo una risposta la dovrà dare, altrimenti – sottolinea Verdelli – si pone un problema che va anche aldilà di Zaki e cioè se sia lecito che l’esecutivo non prenda in considerazione una chiara e quasi unanime richiesta del parlamento.
Non è più tempo – se mai lo è stato – di avanzare piano e restare in silenzio per non far indispettire Al-Sisi. Se si fosse adottata questa linea anche sul caso Regeni, difficilmente si sarebbe arrivati all’inizio del processo ai quattro agenti della Sicurezza egiziana accusati del sequestro, della tortura e dell’omicidio di Giulio. Sono serviti anni di battaglia da parte dei genitori e di “clamore dolorosamente pubblico”, come lo definisce Verdelli, per arrivare a questo risultato.
È tempo, dunque, di alzare la voce e battersi affinché Patrick sia liberato al più presto, iniziando dal conferirgli una cittadinanza che ormai gli spetta. Restare nel limbo e affermare di volerlo liberare senza però far seguire i fatti non produrrà alcun risultato, oltre a dare la spiacevole impressione che il rispetto dei diritti umani e della democrazia dopo tutto non siano in cima alle priorità del nostro Paese.
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